Lella Colombo
“Mi piace parlare con te”. Parole inaspettate, stranianti, che arrivano improvvise in un Teatro ammutolito, inquieto, teso nell’ascolto di una storia di oggi che sembra tornare indietro nel tempo, quando ancora si lottava per la sopravvivenza, per il minimo sindacale, per le garanzie e le tutele sul lavoro.
“Mi piace parlare con te”, ripete l’uomo e la voce flette verso note più intimiste, come a volere dire o aggiungere qualcosa, forse a tradire un sentimento di cui però non c’è consapevolezza.
In scena “Sera Biserica”, scarna, asciutta e impietosa denuncia dei “tanti si dice” che si mormorano nelle case, nelle Chiese, che corrono per le strade e per le piazze del paese, storie vere consegnate al regista, Giacomo Guarneri (che ne ha curato la scrittura) e agli attori come si fosse in confessione.
La scena è spoglia, essenziale, una serra sormontata da una croce, nuovo tempio in cui si consacra il potere dell’uomo sull’uomo, dove il contadino- padrone o, se si preferisce, l’imprenditore agricolo gestisce il bisogno e la fame di lavoro.
Un uomo senza nome, che ordina la sua forza lavoro in Romania come fosse merce e la valuta prima di acquistarla come si fa al mercato del bestiame: è giovane, è forte, può lavorare bene. È Mihaela, rumena da anni in Italia, a fare da tramite in questa contrattazione, piccolo, meschino esempio di caporalato locale, che sceglie per il padrone e per se stessa: tanti capi, tanti guadagni.
Primitivo, anaffettivo, un misto di rudezza e di frustrazione, egli ha imparato a conoscere il potere del denaro e la debolezza del bisogno. Ne è asservito e se ne serve. Non è prioritario nei suoi pensiero lo sfruttamento sessuale. Quello si fa se capita, fa parte dell’ordine dei bisogni primari da soddisfare. Da entrambe le parti. E non dà diritto a privilegi, forse a qualche sconto nelle ore lavorative o a qualche omaggio, in fondo anche agli animali si dà un po’ di foraggio in più se quel giorno hanno reso bene.
Alina si pone nella sua vita come elemento destabilizzante. Sin dal primo momento, quando la vede scendere dal pullman. Non si avvicina, sente qualcosa di strano, deve prima capire cosa può esserci di diverso dal solito. Poi tutto sembra prendere la strada di sempre, giorno dopo giorno, e lui impegnato ad affermare il suo potere di padrone e di maschio.
Alina lavora ma gli sfugge, lo fronteggia.
L’ordine naturale delle cose si ristabilisce con l’arrivo di Nicoleta. C’è consenso, non c’è violenza, non c’è stupro. È ancora peggio, una violenza ancora più devastante, che si autoassolve, che travolge valori e rispetto della persona, che annienta ricordi e rispetto di sé.
Un aborto finirà per renderla ancora più serva, come un relitto alla deriva: in ginocchio gli bacia la mano, si avvinghia disperata, ormai consumata ed arresa, ad un uomo che lei ha definitivamente reso padrone . Una scena insostenibile per la dimensione del dolore che trasmette e che il pubblico fatica a reggere, un groviglio di anime, di corpi, di visi distorti che dà la piena misura del dramma.
Ma sullo spegnersi di Nicoleta Alina risorge e sceglie la vita, la vita della dignità, delle poche cose che contano. E lui la lascia andare via, finalmente libero di tornare alla sua primitività, al non pensiero, dentro una vita di terra e plastica, una terra non bruna e calda, una terra avvelenata, resa fredda e nera , anch’essa morta, uccisa dallo sfruttamento e dai pesticidi.
Una storia fatta di tante storie, giocata su molti piani , che infine si biforca su due rivoli, uno verso l’abisso l’altro verso un ignoto in fondo al quale si intravvede però uno spiraglio di luce.
Perfette le attrici Lusiana Libidov, Chiara Muscato e Marcella Vaccarino in una recitazione, dura, complessa, che tocca corde profonde di secoli di storia al femminile.
Bravissimo Fabrizio Ferracane nel sottrarre il proprio personaggio al giudizio immediato facendone una vittima verso cui si finisce per provare un sentimento di forte rifiuto misto però ad una sorta di compassione: vittima di una sottocultura e di un passato di miseria, dal quale pensa di essersi riscattato con il possesso della terra, la roba di verghiana memoria, senza avere alcuna percezione dell’abisso morale in cui è precipitato.
Quattro monadi perse in un universo dove non c’è posto per la pietà, ognuna dietro al proprio destino, senza possibilità di scelta; drammatiche solitudini in una storia che si srotola su strade già percorse, che il pubblico conosce ma di cui ora è fatto testimone.
Un fruscio continuo di plastica fa da perfetto sfondo ad un dramma dal sapore arcaico; una scrittura che non concede niente all’eleganza o all’orpello letterario, che però avrebbe bisogno di trovare alcune pause per lasciare che i personaggi dipanino la loro vita giocando ancora più sui silenzi , una storia scritta nei visi e in quella gestualità capace di ricacciare in gola la necessità delle parole.
Uno spettacolo di denuncia civile assolutamente da vedere.
Seră biserică
di Giacomo Guarneri
con Lusiana Libidov, Fabrizio Ferracane, Chiara Muscato, Marcella Vaccarino
regia: Giacomo Guarneri e Marcella Vaccarino
scenografia: Giacomo Guarneri
luci: Petra Trombini
progetto e organizzazione: Peppe Macauda
supervisione: Andrea Burrafato
produzione e distribuzione: Santa Briganti
co-produzione: La pentola nera
con il sostegno di Flai CGIL