Un giorno il pastore di Pietramarina preparò un bel fuoco ed arrostì un castrato bello grosso, dandone pure al brigante, che sospettoso per natura e per necessità capì che sotto ci poteva essere qualcosa. Vide, un po’ lontano dal fuoco, delle frasche di oleandro, che nel fiume Alcantara e nei valloni in genere, dove c’è acqua, cresce rigoglioso, che il pastore aveva portato sicuramente da lì – e un pastore che ci fa con l’oleandro che è velenoso e le pecore se se lo mangiano muoiono? – e si insospettì. Il pastore aveva fatto un grave e grosso errore: quello di non nascondere o bruciare le frasche di oleandro. Ggiddiu diede allora ad un cane che era lì ad aspettare, ignaro del boccone avvelenato, i pezzi di carne, e a questo gesto il pastore capì e fuggì di corsa prima che il cane avesse il tempo di morire. Se il pastore avesse avuto più sangue freddo avrebbe potuto salvarsi la pelle. Il brigante dell’Etna, vedendo che il pastore fuggiva, capì che questi aveva il carbone bagnato, e gli sparò alle spalle, senz’alcuna pietà; non l’aveva mai fatto con alcuno.
«Così muoiono i traditori!» gli gridò; «T’ho dato da mangiare, soldi a palate, e questo è il ringrazio», e nel mentre diceva questo lo riempì di proiettili col suo mitra che teneva sempre a coscia, a portata di mano.
Il pastore rotolò per terra in una danza macabra, sembrava posseduto dal demonio, e il brigante, mentre il pastore spirava gli recitò: «Cu d’un sceccu ni fa un mulu u primmu cauci è u sò» “Chi di un asino ne fa un mulo” – ossia lo rende più forte, “il primo calcio lo prende lui”.
Mai proverbio era stato tanto più veritiero. E gli sputò addosso. Le pecore restarono giorni e giorni a vagare senza padrone, per la gioia dei contadini delle campagne circostanti, che accomodarono per un po’ di tempo. Era tempo di guerra e una pecora faceva comodo. Chi aveva ordito tutto questo? Per quale somma? Per quale motivo? I carabinieri? Qualche altro malavitoso? Qualcuno che ce l’aveva con il brigante dell’Etna? I carrettieri messisi d’accordo? Il brigante dell’Etna questo non lo capì mai, ma prontamente cambiò aria; passò dalla locanda della sua amica, fece rifornimento e andò a nascondersi in una delle case che Mussolini aveva fatto costruire per la strada che va verso Novara di Sicilia. Stette lì parecchi giorni e quando i viveri incominciarono a scarseggiare, pensò di spostarsi a Novara di Sicilia.
Qui c’erano parenti dei Gullo di Linguaglossa, detti “i Nuvarisi”, che si erano stabiliti a Linguaglossa molti anni prima, per via della lavorazione del pino laricio. Erano bovari abilissimi, che conducevano le “paricchie” –pariglie- di buoi come niente fosse, ci parlavano ai buoi, e i buoi obbedivano (Linguaglossa un tempo aveva cento “paricchie” di buoi, dunque duecento buoi, e attorno a questi fiorivano i maniscalchi e c’era tanto lavoro lungo la via dello “strascino”- “a trainara”- per portare i tronchi di pino laricio dalla pineta a valle). Poi a Linguaglossa fecero la teleferica che portava un tronco al paese ogni sette minuti. I bovari bruciarono la teleferica perché toglieva loro il lavoro, ma nel frattempo il progresso avanzava, costruirono la strada e i tronchi venivano trasportati con i camion. Poi finì anche l’utilizzo del pino laricio ed il relativo commercio del legname. I bovari si adattarono ad arare la terra con i buoi, ma il lavoro moriva lentamente per la presenza dei trattori. Infine, piano piano, scomparvero anche i bovari, per motivi ovviamente anagrafici. Un grande esperto di quest’arte era Franciscu u Nuvarisi e i B. Tramite informazioni riuscì a trovare uno di questi, spiegando che lui era imparentato tramite un san Giovanni con uno di Linguaglossa, e che risultò questi essere un cugino di quello. Gli diede ospitalità e vettovagliamento.
Passati però un po’ di giorni il brigante dell’Etna prese la via del ritorno.
Si fermò un po’ di giorni nella pineta di Novara di Sicilia, che è perfettamente uguale alla pineta di Linguaglossa, con lo stesso sottobosco, le felci, il ginepro, la roverella; si trovava come se fosse a casa propria, un habitat naturale per lui, una nicchia ecologica che meglio non poteva trovare; si sentiva a suo agio, nessun problema, nessun disagio.
Stette un altro po’ di giorni in questa pineta, e dopo aver fatto tappa, sempre nelle case che aveva costruito Mussolini, per un altro po’ di giorni, ritornò nottetempo, per non farsi vedere, alla locanda. Qui trovò novità. C’era un certo biondino, a cui la locandiera faceva gli occhi dolci, e questo al brigante non piacque, ma vuoi o non vuoi fecero amicizia, perché forse erano diventati un po’ parenti. Recita un antico proverbio siciliano: “Nicissità obbliga liggi” – la necessità obbliga la legge.
Anche questo biondino doveva essere uno che fuggiva, che scappava da qualche posto o da qualcosa o chi sa lui da chi.
Fatto sta che fecero amicizia, una specie di amicizia forzata, dettata dalle circostanze. Quest’incontro avrebbe segnato il destino del brigante dell’Etna.